“About eightyone inhabitants”, dice Regine.
Ottantuno circa. E’ il suo personalissimo censimento della popolazione di Illimanaq, Groenlandia occidentale, e vallo a capire se l’ossimoro dell’imprecisione precisa è figlio del suo inglese approssimativo o nasconde una sorta di filosofia esistenziale, su quest’isoletta a parecchie ore di barca da Ilulissat.
E’ venuta ad accoglierci al porticciolo. Porticciolo, oddio… C’è un piccolo molto d’attracco, monoposto direi. Nel senso che all’ormeggio c’è già una piccola barca da pesca, e altro spazio non c’è. La nostra barca era partita da Ilulissat di buon mattino e la prima ora se n’era andata nel tentativo zigzagante di trovare la via del mare aperto, sfiorando gli iceberg che ricoprono la baia e calpestando con sinistri scricchiolii da vetro infranto un numero imprecisato ma consistente di lastre di ghiaccio alla deriva.
Siamo nove turisti e abbiamo pagato la Tourist Nature – agenzia dell’italiano “Silver” – per questa gitarella di mezza giornata. Mèta designata, un villaggio di pescatori diciannove chilometri a sud di Ilulissat. Illimanaq, appunto. Con me c’è una coppia di signore bresciane, le prime italiane – le uniche, a dire il vero – di questo viaggio. E poi una svizzera taciturna dall’età indefinibile, una ragazza finlandese magrissima dall’aria un po’ spaesata, più due coppie di norvegesi sui sessanta, simpatici e rilassati.
La nostra barca oscilla lenta e circospetta tenendosi a est della costa, quasi nascosta alla vista dagli iceberg che le si addensano contro. Non era così, soltanto un paio di giorni fa. Una delle due signore bresciane mi mostra le foto che ha scattato al suo arrivo in paese: ghiaccio, quasi non ce n’era.
“Ma sai che fastidio, con tutti quegli iceberg…
“L’altro giorno –le spiego- la nostra motonave ha impiegato un paio d’ore a entrare nel porto”. E’ stato un momento indimenticabile ma non glielo dico; perché non sopporto quando lo fanno con me, quando mi dicono “Ah non sai cosa ho visto” o “Non immagini cosa ti sei perso” e io li impiccherei.
“Certo, con tutti questi iceberg è un’altra cosa”, dice lei sorpresa del fatto che il pilota riesca a trovare varchi laddove l’acqua neppure si vede, ricoperta com’è dal pack che sembra uno strato insuperabile.
Ora, dopo meno di due ore, qui a Illimanaq, circa 81 abitanti, e Regina ci saluta sorridente scortandoci verso casa sua. E’ piccola, un viso cordiale e incline al sorriso, un paio di occhiali da vista, una trentina d’anni, un marito cacciatore e due bimbi che attendono il suo rientro.
Muku di anni ne ha cinque, Maliina appena due. Non stanno fermi un secondo, forse eccitati dalla presenza di quegli strani tizi che sono appena entrati in casa, dopo essersi tolti fuori le scarpe. Secondo i depliant turistici, Illimanaq è un villaggio “incontaminato” e questo significa solo una cosa: che i “contaminatori” siamo noi, ma non ce ne sono poi molti altri. In realtà, il senso sarebbe un altro, e cioè che qui non ci sono negozietti di souvenir, agenzie di viaggio, alberghi, ristoranti. E questo è assolutamente vero. Le case, puoi abbracciarle tutte assieme con lo sguardo, disseminate lungo un piccolo tratto di costa senza essere addossate le une sulle altre, ma neppure troppo distanti per non smarrire il senso di una comunità.
Quella di Regina è ad un piano. Il soggiorno spazioso con una grande tivù, una cucina moderna e la tavola già apparecchiata per noi. Più il bagno e due stanze da letto. Quello che serve, insomma: niente di più, niente di meno. Il pranzo, compreso nel “pacchetto”, prevede una minestra di salmone. Saporita e abbondante. C’è un po’ d’imbarazzo. “Avete delle domande?” chiede Regina a suo agio nel ruolo di guida turistica. Forse è l’unica, sull’isola, a lavorare con le agenzie di Ilullisat. Se non è l’unica, di certo non saranno più di due o tre famiglie. Un aiuto al reddito familiare, che male non fa.
La minestra di salmone è a base di riso, sedano, patate e carote; ovviamente comprate al supermercato, l’unico del villaggio, visto che qui orti proprio non ce ne sono. Finito il pranzo, qualcuno azzarda timidamente qualche domanda ed è allora che Regina sfodera l’asso nella manica: un vero e proprio dia-show sulle attività del marito Samuel, che si rivede con malcelato orgoglio nelle foto scattate da qualche suo amico durante svariate battute di caccia. Nella prima serie di scatti lo si vede a caccia di uova di uccelli acquatici, i nidi quasi inaccessibili su speroni rocciosi o tra gli anfratti. D’improvviso precipitiamo nell’inverno artico ed eccolo lì, imbacuccato da vero eschimese, alla guida di una muta di cani da slitta che si spinge oltre il fiordo per portarlo a caccia di renne.
Sulla neve restano le tracce del sangue di renna e qualcuno guarda altrove. Regina sorride soddisfatta, fiera del marito che provvede a lei e ai suoi due bimbi. Cambio scena, caccia alla foca. Un buco nel ghiaccio, e una lunga attesa. Le foche non hanno ancora imparato a temere l’uomo, o forse la trappola mortale è congegnata troppo bene perché si possa evitare. Devono risalire in superficie per respirare. Vedono il buco, e affiorano. Chissà se c’è un istante – un unico, lunghissimo istante – in cui capiscono che è finita, nell’intervallo infinitesimale tra l’affioramento in superficie e il colpo d’arpione che le uccide, generalmente all’istante. Quel giorno, Samuel ne deve avere agevolmente cacciate cinque o sei, una dietro l’altra.
Ma le anatre sono animali domestici o cibo comune?
I cani sono eccitati, sanno che le viscere spetteranno loro di diritto. L’ultima parte dello show fotografico mostra scene meno cruente. I capanni utilizzati per la notte. Piccoli, angusti, ma al riparo dal freddo artico. E poi la groenlandese abbaia nervosa perché ho preso in braccio uno dei suoi cuccioli, grandi poco più di un gattino. Lei è alla catena, loro no. Sono giocherelloni e molto socievoli, ma mamma non approva. Alle spalle delle ultime case c’è un laghetto, dove sguazzano alcune anatre. Mi viene da pensare: ma cacceranno anche quelle? Dopotutto, sono cibo. E qui non siamo in un parco pubblico con laghetto annesso. Però penso che no, quelle anatre non se le mangeranno, anche se non saprei dire il perché? Forse, come per noi occidentali, il confine è dato dal considerare un animale più o meno domestico. Forse.
Non ci sono le fognature, in paese. C’è però l’elettricità, portata via cavo sottomarino. La maggior parte delle case sono a due piani, ovviamente coloratissime. C’è una bella chiesetta luterana, rosso fuoco che si staglia contro un cielo blu senza neppure una nuvola. Casa e chiesa. Più una scuola primaria, e il supermercato dove vendono un po’ di tutto, compresi i fucili da caccia. Ce ne sono un paio in offerta speciale, appesi dal soffitto con filo da pesca sopra il reparto dei surgelati, il prezzo irresistibilmente basso, ma direttamente proporzionale al la qualità dell’arma: una specie di archibugio di non so quale guerra punica. Adiacente al market, l’ufficio postale: una sola stanza, con una parete ricoperta di caselle postali, una per ogni famiglia. Ecco, il villaggio è tutto qui. Niente strade, niente macchine.
Solo slitte, motoslitte e quad
La barca da pesca è ancora lì, attraccata al porticciolo su cui incombe una gru di carico, per quando arriva una barca più grande con i rifornimenti, una volta al mese. Le signore danesi, che all’andata si erano dovute inerpicare su una ripida scala di ferro per raggiungere il molo, ora si fanno reggere dai maschietti per ridiscendere sul molo. Regina ci saluta allegra e se ne va. Dopotutto, penso, ha guadagnato facile: inglese quanto basta, un po’ di savoir faire, una minestra e un giretto per il villaggio. Certo più facile che andare a caccia di narvali o di orsi bianchi.
Se avesse detto “quasi 81 abitanti” avrei pensato a una donna incinta, a una creatura in procinto di nascere per rinforzare popolazione e statistica.
Se avesse detto “almeno 81 abitanti” avrei pensato che qualcuno potesse essersi perso e al villaggio stanno chiedendosi se tornerà mai sui suoi passi. Ma Regina ha detto “about” che significa circa, più o meno. E mentre la barca viaggia veloce e sicura in attesa di ricominciare la sua estenuante danza tra i ghiacci, sorrido felice anche io, pensando che a Illimanaq è giusto non avere certezze, su nulla.