Listvyanka, lago Bajkal. Sì, esatto: Siberia.
È il lago d’acqua dolce più profondo del mondo: al centro si inabissa giù giù fino a 1620 metri, con una media di 730. E la superficie? Sono quasi trentaduemila chilometri quadrati. Da solo, il Baikal costituisce il venti per cento delle riserve d’acqua dolce della Terra. Sono seicentotrentasei chilometri di lunghezza da nord a sud, più o come la distanza tra Mosca e San Pietroburgo. La larghezza media è di quarantotto chilometri.
Negli inverni più freddi, il lago arriva a essere ricoperto di uno strato di ghiaccio alto un metro. Quest’anno è stato un po’ più caldo: solo mezzo metro. Ma è quanto basta per passarci sopra con qualunque mezzo. Ogni tanto, il ghiaccio si rompe. Molte auto e altri mezzi sono precipitati nel lago, nel corso degli anni. Ci sono più macchine che imbarcazioni, laggiù sul fondo.
Listvyanka è tutt’altro che un paese a vocazione turistica. Chi arriva in autobus da Irkutsk non troverà bar, alberghi, Internet café, pub in stile inglese, discoteche e altre amenità, ma un villaggio sonnacchioso che vive di seconde case e fatica a darsi un’immagine turistica. Persino per i budget travellers, abituati a dormire in ostelli o case private a cinque dollari a notte, qui non c’è di che divertirsi.
I libri fotografici sul Baikal esaltano le meraviglie di fauna e flora, ma non si dimenticano della mano dell’uomo: positiva, con la creazione di dighe spettacolari; negativa, con gli incendi che devastano centinaia di ettari di bosco per volta. Vicino al porticciolo c’è un pannello informativo che illustra in sintesi le caratteristiche ecologiche del lago: duemila chilometri di coste, antropizzate appena per un decimo, e duecentoventimila persone che vivono in centodieci villaggi. Non ci sono discariche, e questo è un grosso problema.
Ogni anno qui calano settantamila turisti, che nel lago o sulle sue rive, se va bene, depositano di tutto: lattine, oggetti di metallo, bottiglie, rifiuti organici e detergenti sintetici. E poi c’è la famigerata BPPM, la Baikal Pulp & Paper Mill: una cartiera che riversa i suoi liquami nelle acque per la cui riconversione ecologica la Banca Mondiale ha già stanziato venticinque milioni di dollari. Il re del Baikal è l’omul, una specie di trota: se ne pescano due o tre tonnellate all’anno, ed è la prelibatezza servita dai (rari) ristoranti del lungolago. L’omul essiccato va forte anche sulle bancarelle della piazzetta accanto al porto, dove alcune decine di donne hanno le loro braci portatili.
È un lunedì di festa: domani si torna al lavoro, ma oggi ci si può godere una gita primaverile. Arrivano da Irkutsk, ma anche da più lontano. Arrivano con auto vecchissime e scassate, che stanno insieme con l’elastico. Arrivano con i macchinoni, Mercedes o BMW tirate a lucido, ostentate come le ragazze che ci stanno dentro. Arrivano con le decappottabili, ancora più chic. Oppure con le macchine giapponesi, che qui vanno forte perché costano meno di quelle russe, ma hanno la guida a destra, all’inglese. Risultato, un gran numero di incidenti perché i giovani amano i sorpassi, ma con il volante sul lato passeggero non si vedono facilmente i veicoli che arrivano dalla direzione opposta. O, quando li si vede, ormai sono a due passi. Al mercatino i venditori di pesce si contendono gli affari con le bancarelle di souvenir, artigianato e cianfrusaglie: dagli oggetti di malachite ai sottopentola di legno di betulla, dagli sciamani siberiani di porcellana ai rulli per massaggi shiatsu, dalle scatolette intagliate alle maschere.
L’isba, la dacia e la sauna
La dacia non è la villa dei ricconi russi, ma la casa di campagna, definizione che comprende anche un capanno di legno con un orticello davanti. Dunque, dacia uguale seconda casa, generalmente vicina a un lago o un fiume. Le abitazioni tradizionali che si affacciano sul lungolago di Listvyanka sono isbe siberiane, tipiche costruzioni contadine fatte di tronchi d’abete e coloratissime. Le tinte preferite sono il celeste, il verde scuro, il giallo senape, persino il lilla e l’indaco.
Davanti all’isba, cascasse il mondo, c’è l’orto. Ai due lati, il piccolo capanno di legno che ospita il gabinetto e quello più grande
dove ci sono i banja, una specie di sauna calda e secca che può accogliere anche sei o sette persone. In genere l’ingresso all’isba è laterale, per lo più sul lato destro. Un piccolo vestibolo introduce all’abitazione, composta di un unico spazio comune suddiviso in quattro minisettori e dominato dalla stufa al centro. E proprio la stufa, che dal pavimento sale fino al soffitto, è l’elemento caratterizzante. Funge da riscaldamento centrale nei gelidi inverni siberiani, serve per cucinare, ma soprattutto sostiene il tetto, facendo da struttura portante. Se il proprietario è ricco, la stufa è decorata con piastrelle. Ai suoi quattro lati si aprono altrettanti settori: tre occupati dalle camere, uno dalla cucina. Non esistono porte, non esiste privacy, non esistono séparé: qui tutto è in comune. I vecchi hanno diritto ai letti più vicini alla stufa; più distanti dal centro stanno tutti gli altri, ma può accadere che i bimbi più piccoli dormano su amache appese al soffitto per economizzare l’esiguo spazio a disposizione. Niente acqua corrente, solo bacinelle con acqua prelevata dai pozzi.
Per lavarsi ci sono i banja, per fare i propri bisogni il WC esterno. Non riesco a immaginare come d’inverno ci si possa svegliare al tepore della stufa e poi mettersi tre maglioni per andare in bagno, là fuori. «L’isba è una grande stufa con una casa intorno», ho letto da qualche parte: definizione azzeccatissima. Molte isbe sono diventate dacie, cioè seconde case. E ne hanno tratto giovamento. Sono sempre circondate da uno steccato per evitare l’intrusione di animali, ma con quasi tutti i comfort che ci si può aspettare da una casa di villeggiatura: elettricità e acqua corrente, bagno all’interno, frigorifero e computer, magari anche la lavastoviglie.
All’esterno l’immancabile orto, le serre, la legnaia, il capanno degli attrezzi, le vasche di raccolta dell’acqua piovana. Non so quante isbe tradizionali sopravvivano in zone turistiche come l’area del Baikal. La signora sulla cinquantina che apre il cancello della sua dacia e mi fa entrare viene dalla città e sta iniziando i preparativi per la semina, perché tra un paio di settimane l’orto riprenderà vita dopo il lungo letargo invernale. Dentro è tutto un fiorire di tappeti e di arazzi, di quadretti naïf e di ritratti di parenti e antenati, oltre a una sequela di credenze e di mobili di legno, spesso intarsiati. E poi cassepanche, mensole, biblioteche. Tutto molto vivace.
Il villaggio fantasma
A vederla dall’alto, dalla terrazza panoramica naturale situata nei boschi sopra Listvyanka, poteva sembrare una stazione dei treni con qualche casa attorno; oppure un porto mercantile in letargo o un operoso villaggio addossato alla montagna. Ancora adesso che il traghetto sta per attraccare non riesco a capire che cosa mai sia Port Baikal, ed è per questo che ci sto andando. È l’ultima corsa – si dice così? – della giornata da Listvyanka. Un’ora scarsa per farmi un giretto: poi il traghetto mi depositerà sull’altra sponda del lago e se lo perdo sono guai seri. Perché a Port Baikal, lo intuisco ancora prima di sbarcarvi, non c’è nulla. Non ci sono alberghi o negozi. Né bar. Neppure ristoranti. Niente di niente.
Tre macchine e un furgoncino superano la rampa del traghetto ancorato al molo e sciamano via verso il nulla, come i sette passeggeri a piedi. Un vecchio burbero alto sì e no un metro e mezzo fissa gli ormeggi, ripetendo i gesti a memoria. Mi guardo intorno: sembra di essere sul set di un film, o meglio sul suo backstage. Un po’ come quando giri col trenino agli studios della Universal, poco fuori Los Angeles, e vedi le case di cartongesso e stucco, gli scenari di cartapesta, i saloon con la sola facciata tenuti su da un palo di legno sul retro. C’è un porto, innanzitutto: ovvio, se non altro per il nome.
Il lago Baikal si sta risvegliando, ma le vecchie carrette del mare – rimochiatori e chiatte – sembrano imprigionate dai ghiacci, che qui non sfrigolano né si disintegrano a ogni riflusso delle onde. Ci sono una dozzina tra navi, chiatte e battelli abbandonati, gli scafi di color ruggine o pece. La sensazione è quella di un’immobilità fatta di polvere e stagioni morte senza risvegli primaverili. C’è un pontile di cemento dove tre uomini stanno sistemando alcuni sacchi di sabbia attorno all’unica imbarcazione “viva”.
Sull’altro lato la banchina del porto quasi costeggia la ferrovia, con il binario di carico delle merci che devia dalla circumbaikalica – la linea secondaria della Transiberiana costruita per dribblare il lago – per gettarsi quasi in acqua, passando sotto le forche caudine delle gru di carico. La stazioncina è un edificio di muratura a due piani, gestito dallo stesso vecchio che ha sistemato gli ormeggi del traghetto. Dev’essere al tempo stesso capostazione, capitano del porto, sindaco e chissà cos’altro. Lo si capisce dall’aria austera con cui mi affronta, sbraitando e agitando le braccia per spiegarmi che devo andarmene da lì. Oltre il binario morto e la stazione, la ferrovia di questa spettacolare ghost town – in America ci avrebbero messo le casse all’ingresso, la mappa e i figuranti con cui farsi fotografare – si sviluppa su cinque binari.
In lontananza una mezza dozzina di giovani sta camminando lungo le rotaie, verso di me. Sono due ragazze e tre ragazzi, uno vestito in mimetica, tutti con gli zaini. Hanno fatto un trekking, costeggiando il lago sul sedime ferroviario. Al di là dei binari ci sono alcune belle case di legno. Gironzolando tra cortiletti e sentierini, scopro una vecchia bandiera comunista che sventola tra le assi della recinzione esterna di un’isba. La casa sembra abbandonata, come tutto il resto.
Eppure il miracolo sta per compiersi. Guardo l’orologio: dieci minuti alla partenza del traghetto. Mi giro ed è allora che li vedo. Sono gli abitanti di questo villaggio fantasma, dove l’unico cenno di vita era costituito, fino a pochi istanti fa, dagli ululati sguaiati di cani bastardi. Arrivano da non so dove, escono da case che sembravano ruderi, a bordo di macchine su strade che non esistono, stipati – guidatore, amico, mamma con due bimbi piccoli – su improbabili sidecar che ondeggiano tra le buche e i sassi disseminati sulla strada di terra battuta che porta all’attracco. Non sono tanti, una ventina in tutto. Ma sono come un’apparizione. Saliamo sul traghetto. Accanto a me c’è una giovane mamma arrivata al porto sul sidecar. Bionda e sinuosa, jeans a zampa d’elefante e zeppe, saluta i bimbi mentre ci allontaniamo dalla riva. Una ciminiera che non avevo notato adesso erutta un fumo nero e appiccicoso. Sbuca dal tetto di una fabbrica diroccata, con le vetrate rosse e nessun apparente segno di vita.
Forse dovrei iniziare a credere ai fantasmi.